Direttrice d’orchestra o direttore? Ne parla la linguista Giuliana Giusti

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L’ultimo caso che ha fatto parlare di lingua e genere è quello di Beatrice Venezi, tra i più giovani direttori d’orchestra in Italia, che a Sanremo ha chiesto di essere chiamata ‘direttore’ e non ‘direttrice’. Venezi ha motivato la scelta osservando che le professioni hanno un nome preciso che nel suo caso è 'direttore d'orchestra'. Ne abbiamo parlato con la prof.ssa Giuliana Giusti, docente di Linguistica presso l’Università Ca’ Foscari Venezia, esperta sul tema della lingua come creazione di identità culturale e di genere in chiave inclusiva.

Professoressa, è così? Perché in Italia alcune donne di cultura preferiscono essere chiamate con un titolo professionale maschile?

Assolutamente no. Da anni anche la Crusca si è espressa chiaramente su questo tema. I nomi di ruolo in italiano hanno un femminile, come nelle altre lingue romanze (ma anche ad esempio in tedesco) e a differenza dell’inglese dove solo i pronomi hanno il genere. Nelle lingue romanze, il nome di ruolo è una radice che si combina con una desinenza di genere che non appartiene al ruolo ma alla persona che lo ricopre, come in maestra / maestro parallelo a ministra / ministro. I nomi che terminano in -tore/-trice sono nomi di agente e declinano di conseguenza. Chi dirige quindi, se donna, è una direttrice. Il suffisso -trice si trova in nomi di largo uso come attrice, doppiatrice, truccatrice e nel nome Beatrice (colei che dà beatitudine). 

Nel caso specifico, ‘direttrice d’orchestra’ compare tra i termini consigliati nelle linee guida del 1987 della linguista Alma Sabatini (un estratto da “Il sessismo nella lingua italiana” a cura di Alma Sabatini per la Presidenza del Consiglio dei Ministri e Commissione Nazionale per la Parità e le Pari Opportunità tra uomo e donna, tuttora un riferimento, è pubblicato sul sito del  Ministero della Pubblica amministrazione). 

Se alcune donne in posizioni apicali desiderano essere chiamate con forme al maschile, contro le regole della lingua italiana, è perché culturalmente il maschile suona più autorevole. I nomi di professioni di prestigio sono tradizionalmente maschili perché in passato quei lavori erano svolti solo da uomini, e in molti casi la percezione culturale è che debba essere ancora così. Non si capisce altrimenti perché nessuna si oppone a declinare impiegata o infermiera, mentre c’è chi discute l’opportunità di dire avvocata o ignegnera. La struttura fonologica e morfologica è la stessa ma il prestigio è diverso. Questo ci fa capire che le resistenze sono di ordine culturale e non linguistico. 

Alcune persone hanno suggerito il femminile ‘direttora’. Lei che ne pensa? 

Alma Sabatini non ha mai proposto la forma ‘direttora’ nelle raccomandazioni. Tra i temini in -ora che vengono suggeriti ci sono pastora (per altro del tutto in uso per le donne di culto della Chiesa Valdese), assessora, questora (oltre a questrice) e pretora (olte che pretrice). In questi casi il suffisso -(s)ora combinandosi alla radice evita una difficoltà articolatoria. D’altra parte la parola signora ha la stessa terminazione e non crea alcuna difficoltà. Personalmente trovo ‘direttora’ inopportuno per tre motivi.

Il primo è di ordine logico: cercare un termine nuovo, in sostituzione di un termine in uso direttrice è come riconoscere al termine in uso la connotazione negativa rispetto al maschile. Questo non accade con i nomi maschili come anche segretario, maestro, sarto che sono ambigui tra connotazione comune e di prestigio. Inoltre, se è il femminile a togliere prestigio, il problema si riproporrà con il nuovo termine femminile. 

Il secondo è di ordine linguistico, modificare il suffisso -trice in -tora, lascia aperto il problema con tutti gli altri nomi al femminile. Solo usando i femminili regolari (direttrice, segretaria, governante) in contesti di prestigio si combatte la china peggiorativa che colpisce i femminili come nomi di categorie svantaggiate.

Il terzo è di ordine sociologico, l’incertezza nella denominazione aggiunge incertezza nel ruolo. Uno dei motivi per cui alcune donne vogliono il maschile è perché il maschile è consolidato. Il femminile è meno usato e spesso non appare nei documenti ufficiali. Se ha anche delle varianti (come avvocata o avvocatessa, questora o questrice) le due varianti si fanno concorrenza a vicenda e la singola persona non può essere delegata a decidere con quale deve definire il proprio ruolo. La lingua è un fatto sociale e non individuale.

Qual è il ruolo della lingua nel raggiungimento della parità di genere?

Il linguaggio è un fortissimo mezzo di trasmissione di concetti culturali che formano la nostra identità di gruppo e individuale. La lingua veicola gli stereotipi e i concetti fondativi della nostra identità culturale in modo sottile (non ne siamo consapevoli) e pervasivo (siamo immersi nella lingua anche quando pensiamo in silenzio). Sostituire il femminile grammaticalmente corretto con il maschile può forse far sentire la donna che “ce l’ha fatta”, che ha raggiunto una posizione pari a quella degli uomini in quel ruolo. Ma sottilmente implica che la donna è in un ruolo maschile quindi non adatto al suo genere. 

I nomi di ruolo al maschile anche se riferiti a donne contribuiscono a nascondere l’esistenza delle donne come protagoniste nel discorso culturale e rende più deboli le donne come categoria sociale e più faticosa la strada verso la parità. 

L’Importanza dell’uso della lingua è dimostrata dalle prese di posizione molto accese. Se fosse una questione di poco conto, la famosa trasmissione non l’avrebbe inserita nel copione. A mio parere lo ha fatto prevedendo che questo avrebbe sollevato un dibattito (già visto e sentito ma a quanto pare sempre attuale), aumentando la visibilità della trasmissione e di chi vi ha partecipato. Questo lo ha ben espresso Gianna Fratta nell’intervista fatta da Valentina Faini.  

In questo dibattito si sente spesso dire che il genere sul ruolo è indipendente dal genere della persona. Invece non è vero.

Proviamo a immaginare che il genere fosse davvero del ruolo e facciamo il caso di ambasciatore e ambasciatrice. Fino a poco tempo fa, l’ambasciatrice era la coniuge dell’ambasciatore. Se il genere sul nome di ruolo fosse indipendente dal genere della persona non solo dovremmo chiamare una donna ‘ambasciatore’ ma dovremmo anche chiamare il suo coniuge ‘ambasciatrice’. Non credo che questo sarebbe accettabile. L’estensione dei nomi di ruolo maschili alle donne non è controbilanciata dall’estensione dei nomi di ruolo femminili agli uomini. Per gli uomini in ruoli tradizionalmente femminili decliniamo al maschile (casalingo, maestro d’asilo, ostetrico). Questo mostra chiaramente che i nomi di ruolo declinano il genere sulla persona e che il maschile per le donne è una innovazione che scardina il sistema linguistico italiano.

Ci sono altri nomi particolarmente difficili da usare al femminile?

Prendiamo ad esempio termini come maestro, cuoco e segretario. Hanno significati ambigui, si va dall’accezione comune – maestro di scuola elementare, cuoco in una mensa, segretario in un ufficio - a quella ‘alta’ – maestro come direttore d’orchestra, grande chef, capo di un partito o sindacato. Se non è così anche per i femminili corrispondenti, il motivo è del loro mancato uso nei contesti di prestigio. Basta utilizzarli con coerenza e regolarità e acquisiranno lo stesso prestigio del maschile. 

Un altro esempio significativo è l’utilizzo di medico/medica. Medico è un nome derivato da un aggettivo. In italiano gli aggettivi con singolare maschile in –o hanno femminile in –a, plurale maschile in –i e plurale femminile in –e. Non riusciamo però a dire medica. Utilizziamo dottoressa, che è un termine generico. Non è una questione di cacofonia, come in architetta, femminile regolare grammaticalmente ma poco utilizzato. Semplicemente non siamo abituati a dirlo. Ci manca il ‘feedback’, che è un meccanismo fondamentale per la costruzione linguistica. Più utilizziamo i nomi al femminile, più sarà naturale farlo. In questo scenario è stata molto dannosa la scelta pubblica di Venezi. 

Come giudica le proposte piuttosto recenti, come l’uso dell’asterisco (*) o della schwa (ə)?

Io utilizzo l’asterisco come forma di abbreviazione per una combinazione di maschile e / o femminile, così ognuno lo legge come vuole. 

Il linguaggio inclusivo per le persone non binarie, persone che non si riconoscono nei generi maschile/femminile, è una necessità e ritengo che vada rispettata. Dal punto di vista linguistico però, io sono per la conservazione, a meno che l’intera società si trovi concorde ad operare un mutamento linguistico. La ə non esiste in italiano ma solo in alcuni dialetti mentre l’asterisco è un suono impronunciabile per molte e molti, adatto alla forma scritta. Usare l’asterisco o la scevà per creare un terzo genere inclusivo e non binario non solo è un forte mutamento rispetto al sistema di genere binario ma rischia di ricondurci al maschile generico ed essere penalizzante per la visibilità delle donne nel discorso culturale.

Il Global Media Monitoring Project, che in Italia è coordinato da Monia Azzalini dell’Osservatorio di Pavia (e dottoranda a Ca’ Foscari) e Claudia Padovani dell’Università di Padova, è il più grande progetto di ricerca e advocacy sulle donne nei mezzi di informazione. Ogni cinque anni compie un monitoraggio degli equilibri di genere nei mass media. Nel 2020 anche Ca’ Foscari ha contribuito al progetto e siamo in attesa dei risultati. Dal rapporto del 2015 emerge che nei media italiani le donne intervistate nel ruolo di testimoni, per esempio in occasione di fatti di cronaca, sono il 30% degli intervistati totali. Quelle sentite nel ruolo di esperte sono il 10%. Questo è un risultato molto grave che dipende a mio parere anche dall’uso del maschile non marcato. Se il direttore o la direttrice di un giornale chiede di intervistare ‘un esperto’, spingerà la scelta del/la giornalista verso un interlocutore. Bisognerebbe usare sempre i due generi, un esperto o un’esperta e adottare una seria politica di equilibrio di genere. Mediche e avvocate rappresentano quasi la metà del totale nelle loro professioni, ma nei media sono praticamente assenti.

Una curiosità, che riguarda anche Ca’ Foscari. Se la rettrice è donna, e il vice è un uomo, è più corretto parlare di pro-rettrice o pro-rettore?

Se consideriamo prorettore / pro-rettrice un nome composto senza testa (come ‘capo reparto’), pro-rettrice non dovrebbe declinare sulla persona che ricopre il ruolo, dovremmo quindi dire ‘un prorettrice’ se si tratta di un uomo. Personalmente, seppur corretta, non credo che questa forma sarebbe accettata. Possiamo invece considerarlo un composto la cui testa è il secondo nome, come dire ‘rettore vicario’ o ‘rettrice vicaria’. In questa analisi del termine è giusto declinare sul genere della persona quindi ‘un prorettore’ e ‘una prorettrice’.

 

La professoressa Giusti ha recentemente curato con il prof. Iannàccaro dell’Università Milano Bicocca il volume Language, Gender and Hate Speech, per Edizioni Ca’ Foscari – Digital Publishing, che apre la collana dei Quaderni del Comitato Unico di Garanzia.

Il volume sarà presentato venerdì 9 aprile 2021, alle ore 17.00, durante un incontro online "Lingua e Parità di Genere in Italia. Risultati raggiunti e prospettive future" in occasione delle celebrazioni dei 60 anni della sentenza n. 33/1960 della Corte costituzionale. Informazioni più dettagliate nell'Agenda di ateneo.

A cura di Federica Scotellaro