Da settembre 2017 Irene Mammi è Ricercatrice di Econometria presso il Dipartimento di Economia dell’Università Ca’ Foscari Venezia. Dopo la Laurea in Cooperazione e Sviluppo Locale e Internazionale all’Università di Bologna ha conseguito un Master in Statistica ed Econometria all’Università dell’Essex (UK), e nel 2008 è stata ammessa all’IMT Istituto di Studi Avanzati di Lucca. Nel corso del PhD in Economics, Markets and Institutions, pur non avendo un background da economista, unisce alla passione per le materie di studio molta determinazione che la porta a conseguire il Dottorato a fine 2011. Prima di giungere a Ca’ Foscari è stata Assegnista di Ricerca presso l’Università di Bologna.
Perché ha deciso di occuparsi di ricerca ed insegnamento? Cosa significa essere una ricercatrice in ambito economico?
Mi è sempre piaciuto studiare e fare ricerca, e, anche oggi che questo è diventato il mio lavoro, continuo a dedicarmici con grande passione. Anche insegnare mi coinvolge molto, probabilmente vi è anche una componente vocazionale; in particolare trovo stimolante riuscire a coinvolgere gli studenti spiegando in aula ciò che studio. Nell’interessarmi alla ricerca accademica non ho abbandonato la vicinanza ai temi di attualità che aveva guidato i primi passi del mio percorso universitario: infatti in entrambi i filoni di ricerca (in macroeconometria applicata e politica fiscale ed economia sanitaria) analizzo aspetti ad elevato impatto sociale e spesso al centro del dibattito pubblico. Ad esempio, nell’analisi delle scelte di politica fiscale, studio come i policymakers rispondono al ciclo economico quando definiscono le politiche fiscali.
Le parole discussione pubblica e politiche fiscali richiamano alla mente la parola spread, molto utilizzata nei momenti più gravi della grande crisi economica dell’ultimo decennio.
È vero, prima della crisi economica lo spread non era una variabile particolarmente utile per spiegare le scelte discrezionali di politica fiscale; dal 2010 in poi invece sono entrati in gioco nuovi fattori a guidare le scelte dei decisori pubblici. Fattori che i ricercatori hanno studiato in profondità per meglio comprendere le dinamiche macro-economiche nel nuovo contesto scaturito dalla crisi. Una maggiore conoscenza in questo ambito è importante, fra l’altro, perché permette di prevedere l’impatto dei provvedimenti inseriti nelle leggi finanziarie, fornendo indicazioni anche sull’opportunità di introdurre talune misure rispetto ad altre e sulle influenze reciproche delle economie dei diversi paesi. Ai miei occhi, il punto di contatto tra questo campo di ricerca e l’economia sanitaria è duplice: da un lato il rigore metodologico nell’utilizzo dei dati e nelle elaborazioni statistiche, dall’altro l’attenzione alle implicazioni di politica economica e alle ricadute sociali degli studi che conduciamo .
Qual è il focus della sua ricerca in ambito di economia sanitaria e quali i metodi di analisi?
Il tema di cui più mi sono occupata negli ultimi anni è stato quello degli accessi inappropriati al pronto soccorso. Il contributo dell’economia applicata ad ambiti un po’ insoliti come questo è determinante non solo per quantificare e meglio comprendere il fenomeno, ma anche per individuare la risposta più appropriata da parte delle autorità pubbliche al fine contrastare il problema e migliorare il benessere della collettività.
In particolare, i nostri studi hanno cercato di valutare in che misura miglioramenti nell’organizzazione e nell’accessibilità della medicina di base attraverso l’estensione delle orario di apertura degli ambulatori abbia contribuito a ridurre gli accessi inappropriati in Pronto soccorso. Lo scopo era quello di allentare la pressione sugli ospedali lasciando loro la possibilità di concentrarsi sui casi più gravi. La ricerca è stata pubblicata nel 2016 sul Journal of Health Economics, la più importante rivista scientifica nel campo dell’economia sanitaria, e abbiamo vinto il premio AIES – Farmafactoring per la migliore pubblicazione internazionale dell’anno realizzata da autori italiani nel campo dell’economia sanitaria.
Se si identifica sul lato dell’offerta la causa principale del sovraffollamento del Pronto soccorso - se dunque gli ospedali non erogano abbastanza servizi o sono carenti di personale - la risposta più efficace è un incremento degli investimenti per rafforzare la capacità ricettiva delle strutture. Se invece le ragioni risiedono principalmente sul lato della domanda - ossia se i cittadini si recano al pronto soccorso quando non è necessario - le politiche da mettere in atto riguardano in primo luogo un miglioramento della capacità di risposta dei servizi territoriali, in primo luogo dei medici di famiglia.
Abbiamo condotto la ricerca grazie ai dati di ‘triage’ fornitici dalla Regione Emilia-Romagna; in particolare ci siamo concentrati sugli accessi con codice bianco (minimo livello di urgenza) che costituiscono un importante indicatore dell’uso inappropriato dei servizi, dal momento che pazienti così classificati avrebbero potuto fare ricorso al proprio medico con pari efficacia clinica. L’elevata incidenza dei codici bianchi sul totale degli accessi è stata in parte contrastata con l’introduzione di un ticket che ha generato un disincentivo monetario a utilizzare il pronto soccorso per problemi di scarsa rilevanza.
Accanto a questo, sono state sviluppate politiche finalizzate al miglioramento della qualità dei servizi alternativi al pronto soccorso, come la medicina di base. Ad esempio è stata promossa la creazione di medicine di gruppo in cui in una stessa struttura si riuniscono più medici di base coadiuvati da personale infermieristico che può svolgere diagnostica preliminare e anche da personale amministrativo per la gestione e l’organizzazione dell’ambulatorio. Ulteriori programmi hanno incentivato l’estensione degli orari di apertura di tali centri fino a coprire 12 ore giornaliere. Infine, l’aggregazione dei medici sotto il profilo logistico è stata anche accompagnata dalla possibilità di condividere le informazioni sulle condizioni dei pazienti attraverso le cartelle. In questo modo, il paziente può recarsi in ambulatorio certo di trovare risposte adeguate.
Per la nostra Ricerca abbiamo fatto riferimento al medico di base quale unità di osservazione e abbiamo valutato l’incidenza degli accessi con codice bianco degli iscritti alla lista di ciascun medico, tenendo conto di una varietà di caratteristiche dei pazienti e dell’organizzazione dell’ambulatorio.
Per quanto riguarda la metodologia, la sfida principale è stata quella di affrontare i problemi legati all’adesione volontaria da parte dei medici a estendere gli orari. Questo fenomeno, noto come endogeneità, lascia aperta la possibilità che i gruppi di medici che operano scelte diverse rispetto all’estensione abbiamo anche diverse attitudini sotto il profilo professionale che a loro volta incidono sull’uso del pronto soccorso dei rispettivi pazienti.
Risulta quindi importante nell’analisi identificare correttamente le differenze di esito effettivamente riconducibili ai diversi orari di apertura da quelle legate alle diverse caratteristiche dei medici e della loro pratica clinica. Grazie alla disponibilità di dati su più anni e all’uso di opportune tecniche statistiche (metodo delle variabili strumentali) siamo stati in grado di identificare una relazione causale significativa fra maggiore apertura degli ambulatori e riduzione degli accessi impropri al pronto soccorso, a conferma dell’efficacia della politica messa in atto.
Che fotografia esce del sistema sanitario nazionale?
In controtendenza si può affermare che la sanità italiana è ancora oggi in grado di rispondere efficacemente ai complessi bisogni di una popolazione che sta attraversando molti cambiamenti, prima di tutto demografici, ma anche legati all’incremento dei costi delle tecnologie mediche. Oggi il sistema sanitario nazionale costituisce un patrimonio per la collettività e un elemento di coesione sociale del paese. Le criticità però non mancano e per questo è in atto un ripensamento di tutto il sistema, che deve tenere conto anche dei limiti alle risorse imposti dal vincolo di bilancio pubblico. Le principali evoluzioni in atto riguardano l’esigenza di riqualificare gli ospedali come luogo di trattamento dei casi acuti, accompagnata da un rafforzamento dei servizi territoriali in cui devono trovare risposta i problemi crescenti legati alle cronicità e all’invecchiamento. Un’efficace integrazione fra ospedale e territorio e un’attenta promozione dell’appropriatezza delle cure sono gli strumenti di politica sanitaria che possono permettere nel futuro di contemperare efficacia dei trattamenti e contenimento dei costi.
Anche i ricercatori sono fortemente coinvolti in questo processo, soprattutto nell’analisi dell’efficacia delle politiche poste in essere e nella valutazione di impatto di queste sulle condizioni di salute della popolazione e della sostenibilità economico-finanziaria del sistema.
Uno studio pubblicato il 5 marzo 2015 dall’Ocse ha evidenziato che l’unica materia scolastica in cui i ragazzi ‘superano’ le colleghe femmine è la matematica. I numeri, quindi, sembrerebbero essere ancora materia maschile.
Nel gruppo di ricerca allargato di cui ho fatto parte all’Università di Bologna eravamo tre donne e due uomini, e anche il gruppo di coautori con cui sto lavorando ha una composizione bilanciata. Se nelle aree scientifico-tecnologiche è ancora largamente prevalente la componente maschile, vero, in economia le quote sono più equilibrate e la situazione è in continuo miglioramento. Nella mia esperienza di docente e ricercatrice, trovo che i numeri siano progressivamente sempre meno una “questione maschile”. In aula le ragazze sono spesso molto più numerose dei ragazzi. Certo non è sempre stato così, e non lo è per tutti i gradi della carriera. Se si guarda ai professori ordinari, il divario nei numeri è notevole, mentre si sta invertendo la tendenza per chi si affaccia oggi nel mondo accademico. In generale, le donne studiano di più e le università si stanno arricchendo di coorti con ottima rappresentanza femminile. La mia esperienza personale è effettivamente anomala: il gruppo di colleghi di dottorato era composto da sole donne, un esempio sicuramente positivo, sebbene con le complicazioni che una convivenza tutta rosa può portare!
Trova che all’interno del sistema universitario esistano differenze di genere? Ricercatori e ricercatrici hanno le stesse possibilità? Il trattamento e le prospettive di carriera sono le stesse?
Sicuramente noi donne ci stiamo guadagnando, seppur lentamente, una parità di trattamento. Mentre nel settore privato le differenze di trattamento sono ancora diffuse, fortunatamente nel settore pubblico è garantita la parità di trattamento economico a parità di livello di carriera. Tuttavia, anche nel mondo universitario, la condizione delle donne può richiedere decisioni difficili e, talvolta, implica differenze nelle opportunità e nelle prospettive di carriera: capita ancora infatti che una donna si trovi a dover scegliere tra progressione di carriera e famiglia. Non si tratta certo di discriminazione conclamata; piuttosto, di una conseguenza della struttura del percorso accademico, specialmente nei primi passi. La strada per diventare ricercatrice è lunga e richiede determinazione e grande impegno.
È comune, per uomini e donne, diventare ricercatori ben dopo i 30 anni, con posizioni a tempo determinato, eventualmente in seguito a periodi di studio e ricerca all’estero. Purtroppo, de facto è frequente che una donna rinunci a proseguire il percorso, prima ancora di avere l’opportunità di diventare ricercatrice, a causa di un costo personale da affrontare più elevato di quello di un uomo. Io sono comunque ottimista: nel mio Dipartimento le donne sono tante, e costantemente in aumento, brave nella ricerca e determinate ad affermarsi!
A cura di Margherita Criveller