Secondo il rapporto Save the Children del 2022 sulla povertà educativa in Italia il 67,6% dei minori di 17 anni non è mai andato a teatro, il 62,8% non ha mai visitato un sito archeologico e il 49,9% non è mai entrato in un museo. Il 22% non ha praticato sport e attività fisica e solo il 13,5% dei bambini e delle bambine sotto i tre anni ha frequentato un asilo nido.
La povertà educativa viene definita da Save the Children come la “privazione della possibilità di apprendere, sperimentare, sviluppare e far fiorire liberamente capacità, talenti e aspirazioni di bambini, bambine e adolescenti”.
È l’impossibilità di accedere a risorse economiche, cognitive e culturali per la promozione della propria libertà individuale, ossia esperienze educative di vario genere offerte dal territorio in cui i ragazzi e le ragazze vivono.
Questo fenomeno impatta, a medio termine, sullo sviluppo e sulle opportunità di inserimento lavorativo dei giovani generando un caso correlato, quello dei NEET, che non lavorano e non cercano un’occupazione. In Italia, secondo le rilevazioni ISTAT, i NEET tra i 15 e i 34 anni sono oltre 5,7 milioni (marzo 2023). Nello specifico, sono 4.252.000 quelli della fascia d’età 15-24 anni e 1.493.000 quelli tra i 25 e i 34 anni. L’Italia ha così raggiunto un triste record, è il paese in cui ci sono più NEET rispetto a tutti gli altri Stati dell’Unione Europea.
Abbiamo parlato di povertà educativa e delle sue conseguenze con Massimiliano Costa, professore ordinario di Pedagogia Generale presso il Dipartimento di Filosofia e Beni Culturali.
La povertà educativa è necessariamente legata alla povertà economica?
La prima considerazione da fare è che la pandemia ha generato negli ultimi anni maggiori situazioni di povertà e disuguaglianza sociale, limitando per alcuni giovani, già vulnerabili, l’accesso ad esperienze educative di qualità in contesti formali e informali. La povertà educativa è, d’altra parte, un fenomeno più ampio della povertà economica. Spesso coinvolge minori che non sono in condizione di povertà materiale, ma che sono invece limitati nella libertà di accesso e di scelta in differenti ambiti di esperienza culturale. La povertà educativa non è quindi solo povertà scolastica, e impedisce a bambini, bambine e adolescenti di far fiorire le aspirazioni e i talenti, anche oltre la scuola.
Spesso dietro un bambino che legge poco o non gode di occasioni di socializzazione con i propri coetanei ci sono genitori che non ritengono significative ed educative esperienze di questo tipo. Per tali ragioni il contrasto alla povertà educativa diventa uno sforzo “ubiquitario” e si esprime in modo differente attraverso una pluralità di contesti in un processo continuo e diffuso che contraddistingue l'apprendimento per l’intera vita quotidiana: dalla famiglia, ai luoghi di lavoro e di apprendimento; dalle relazioni amicali al tempo libero.
Il fenomeno quali effetti può avere sul futuro delle giovani generazioni? Come si può intervenire?
Lo scorso dicembre il Premio Nobel per l'Economia James Heckman ha affermato che “investire in educazione di qualità per la prima infanzia genera benefici sociali ed economici per la società; permette di far crescere adulti più autonomi e capaci di impegnarsi nella vita in modo attivo. Investire nell'educazione di un bambino è un vantaggio economico per la società in termini di risparmi sul welfare: se calcoliamo un valore unitario, ad esempio, di un euro, investito in un bambino all'età di zero anni in un programma di qualità per la prima infanzia, quell’euro sarà ripagato a un tasso del 13% all'anno per tutta la vita del bambino, un tasso di rendimento molto elevato.”
Quindi con l'investimento sulla qualità educativa per l'infanzia si ottengono benefici economici molto elevati, e - torno a usare le parole di Heckman- “cittadini funzionanti, che si impegnano nel proprio Paese, che lavorano nelle democrazie, votano, collaborano con gli altri, si danno da fare e sono meno intolleranti nei confronti delle differenze tra le persone”.
Si tratta di vantaggi enormi, che spesso vengono ignorati. Educare è un compito strategico, dal quale dipendono la conservazione, l’evoluzione e il rinnovamento, senza i quali — come dice Hannah Arendt — “la civiltà e le sue conquiste andrebbero inesorabilmente in rovina”.
Bisogna lavorare su tutti i luoghi dell’apprendimento, dunque?
L’apprendimento non avviene solo a scuola ma anche per strada, in una biblioteca di quartiere, a teatro e al cinema, suonando uno strumento musicale o frequentando un luogo di aggregazione giovanile. Come affermava Maria Montessori: “Per aiutare un bambino, dobbiamo fornirgli un ambiente che gli consenta di svilupparsi liberamente”.
In questo dobbiamo dare attenzione alla famiglia e all’educazione genitoriale come a quella sociale e territoriale coinvolta nella formazione dei ragazzi. Non è solo nella scuola che si decide il loro destino. E più l’ambiente familiare è ricco, stimolante e partecipativo, più offre opportunità in connessione con le offerte culturali del territorio. Per questo servono politiche sociali che diano respiro e motivazione ai nuclei familiari come sostegno alle iniziative territoriali. È al di là della scuola che si devono aiutare le famiglie, che possono essere in difficoltà a causa di fragilità personali, problemi familiari o questioni emotive.
È necessario ripensare le politiche di welfare?
Ci vuole un nuovo paradigma educativo, più indirizzato alla crescita sociale piuttosto che alla performance individuale e di relazione sociale. Oggi ci interessiamo maggiormente, anche nella retorica politica, ad esasperare il valore della performance individuale trascurando così i valori sociali o emotivi che sono fondamentali nella crescita di ciascun ragazzo. Come afferma Galimberti, "i sentimenti si imparano e sono un prodotto culturale". Per questo è fondamentale assumere tale sfida promuovendo lo sviluppo delle competenze non solo cognitive ma anche socio-emotive-relazionali che nascono prevalentemente dall'incontro in spazi di interazione, ascolto e riflessione giovanile non dominati dalla egemonica logica del consumo o dell'edonismo individualista.
Leaving no one behind, non lasciare nessuno indietro, è il motto dell’Agenda ONU 2030 e richiama un approccio integrato al problema della povertà educativa affermando che ciascuno può essere agente concreto di cambiamento. Questo è possibile se costruiamo una nuova idea di sviluppo economico sociale e culturale che veda un continuo scambio tra famiglia, territorio e agenzie educative e formative attraverso un vero processo di reciprocazione. Spesso la scuola fa fatica nel coinvolgere in modo continuativo le famiglie appartenenti ai ceti sociali più svantaggiati. Bisogna promuovere l’allargamento di responsabilità pedagogica all’intera comunità territoriale, nei confronti di quei soggetti che vi appartengono e a vario titolo svolgono compiti educativi. Questo si trasforma nella promozione di un modello di learnfare sociale fondato sul diritto all’apprendimento. Per tali ragioni la scuola come l’Università devono diventare non solo luogo di insegnamento e ricerca ma, in prospettiva pedagogica, assumere la promozione di opportunità sociali e culturali inclusive per il proprio territorio attraverso il dialogo con giovani e famiglie.
Il modello di welfare universalistico deve essere sostituito da uno mirato e selettivo negli investimenti in quanto collegato ai differenti bisogni e territori. Per il contrasto alla povertà educativa abbiamo bisogno di fornire risorse aggiuntive (scuole, centri sociali, infrastrutture, asili etc.) proprio in quei territori dove maggiormente si concentra la povertà materiale e educativa, come le aree periferiche urbane. La transizione al modello di learnfare deve consentire la creazione di risorse mirate per lo sviluppo di aree dove maggiore è l’incidenza della povertà educativa.
Quando, e come, è più importante intervenire?
Tutti i nostri studi indicano chiaramente: che i risultati migliori si hanno quando si attivano i programmi di intervento sociale per la fascia d’età 0-6, quindi con i bambini più piccoli. Se non agiamo presto, rischiamo di essere inefficaci.
La comunità educante, radicata nel territorio, deve essere attenta agli elementi di appartenenza identitaria e spirito di comunità, legandoli all’apprendimento ed alla cura dei beni comuni. Per questo è utile sviluppare una proposta pedagogica di service learning, che collega strettamente il servizio e l’apprendimento in una sola attività educativa articolata e coerente. In questo modo si uniscono cittadinanza, azioni solidali e i volontariato (il service) all’acquisizione di competenze professionali, metodologiche, sociali e soprattutto didattiche (il learning), affinché gli allievi e le allieve possano sviluppare le proprie conoscenze e competenze attraverso un servizio solidale all’interno della comunità.
Il service learning consente simultaneamente di imparare e di agire e, quindi, migliorare l’apprendimento e, al tempo stesso, potenziare i valori della cittadinanza attiva. Partendo dalla convinzione che la cittadinanza non sia soltanto un contenuto da trasmettere, questa proposta pedagogica chiede di compiere concrete azioni solidali nei confronti della comunità nella quale ci si trova ad operare.
Il PNRR ha concentrato le sue azioni proprio sulla fascia d’età 0-6 e gli asili nido.
Si, nel PNRR c’è un capitolo sugli asili nido. Ed è legato sia all’esigenza di aumentare strutture per permettere a più bambini e bambine di frequentare l’asilo nido, qualificare l’apprendimento e sviluppare in questa fascia d’età essenziali competenze creative, sia per affrontare e migliorare un’altra questione fondamentale: la cura della fascia 0-6 a carico prevalentemente femminile. Potenziare gli asili e le strutture educative significa anche valorizzare l’occupabilità delle donne. Per questo è il momento di fare scelte politiche coraggiose che guardino alla scuola come all’Università con investimenti fondamentali per la ripresa civile e sociale, per invertire la rotta della depressione sociale e dell’impoverimento relazionale, anche a seguito della pandemia.
Ca’ Foscari cosa ha fatto o può fare in questo frangente?
L’Università può continuare a lanciare iniziative educative e formative - penso ai PCTO e ai LIVING LAB e in generale alla terza missione- con cui coinvolgere studenti e territorio e costruire insieme a tutte le parti sociali, le istituzioni pubbliche e private un nuovo ecosistema per l’apprendimento diffuso e partecipato capace di coinvolgere anche giovani e famiglie.
Dall’altra parte la nostra università deve continuare, come nella tradizione della SSIS Veneto, a formare il personale della scuola, sia con la formazione iniziale sia con quella continua, promuovendo azioni e progettualità educative condivise per il territorio insieme al mondo educativo, della cultura e del lavoro.
Ha in mente un esempio virtuoso di politiche attente alla crescita culturale degli individui?
Penso senz’altro al Nord Europa dove lavorano sul modello learnfare e si contrappongono al modello anglosassone dove l’elemento cardine per l'integrazione è rappresentato essenzialmente dal lavoro (workfare). Le politiche in Nord Europa sono fondate sull’idea che sia il soggetto a poter decidere come intraprendere il proprio sviluppo personale e sulla centralità del dialogo per un welfare selettivo e capacitante, in grado di mettere al centro la libertà di ogni individuo di realizzare il proprio progetto di vita oltre a quello professionale.
Riassumendo, cosa si può fare per contrastare il fenomeno della povertà educativa?
Coerentemente a quanto segnalato da Save the Children nel 2022, sono convinto che sia necessario potenziare alcune iniziative di politica educativa come:
- Qualificare i servizi educativi per la prima infanzia.
- Potenziare e qualificare l'offerta formativa e didattica delle scuole (con servizio di refezione, tempo pieno, infrastrutture adatte alla promozione di attività extracurriculari, come sport, arte, programmi culturali, ricreativi).
- Promuovere i patti educativi di comunità, accolti dal Ministero dell'Istruzione e del Merito nel Piano Scuola, realizzati e sottoscritti territorialmente, che contribuiscono alla costruzione di un fattivo patto di corresponsabilità educativa con le famiglie basato sui principi del learnfare.
- Investire nella formazione dei docenti e nella didattica inclusiva e partecipativa, per sviluppare, fin da piccoli, quelle competenze trasversali che facilitano l’apprendimento e la crescita, anche a livello personale e socio-ambientale.
- Ripensare il territorio come ecosistema per l'apprendimento partendo dalla progettazione dello spazio fisico a scuola, allargando il campo all’ambiente circostante, sfruttando le potenzialità digitali, fino a trasformare i luoghi di privazione in ampie aree di apprendimento, resilienza e cambiamento sia educativo che sociale.