Mario Morcellini (Agcom): “Immigrazione? Raccontata male, numeri sbagliati”

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Mario Morcellini
Ph: RadioSapienza

Lo stato di salute dell’informazione italiana è discreto, ma occorre frenare le polarizzazioni. La diagnosi arriva dal Commissario dell’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom), il prof. Mario Morcellini, intervistato dalla redazione di CafoscariNEWS.

Morcellini, che è anche Professore Ordinario in Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi alla Sapienza di Roma - dove ha ricoperto e ricopre numerosi incarichi istituzionali - terrà la lezione inaugurale della 18 ° edizione del Master in Immigrazione. Fenomeni migratori e trasformazioni di Ca’ Foscari Challenge School sul tema ‘Mass media, immigrazione e produzione della paura’.

Appuntamento venerdì 8 febbraio alle ore 15 presso Ca’ Foscari Challenge School, al VEGA.

Professore, qual è lo “stato di salute” dell’informazione italiana e quali sono le novità più radicali degli ultimi anni?

Stavo scorrendo proprio adesso l’incipit della più bella rivista culturale italiana in questo ambito, ovvero ‘Formiche’. La prima riga cita: quando manca la libertà manca l’ossigeno. Non possiamo dire con certezza assoluta che oggi manchi la libertà, ma certo è in corso un fenomeno che queste poche righe documentano bene. Così continua l’editoriale: “Capita invece che a tutte le latitudini, persino in Europa e in Italia, si registri un inquietante arretramento”.
Anche nel caso in cui questa preoccupazione non fosse del tutto fondata, il principio di precauzione ci chiede di domandarci se oggi l’informazione italiana, e più in generale la comunicazione, godano di un buono stato di salute. Io ritengo che la risposta sia ambivalente. Aumenta molto la partecipazione dei pubblici, ma non quella competente. A crescere è soprattutto quella che distribuisce dividendi di aggressività e tossine.
Lo stato di salute dell’informazione è passabile, discreto. Ma deve far i conti con un dramma che dobbiamo saper graduare e dobbiamo frenare: la polarizzazione eccessiva.

Chi fa la comunicazione che funziona? Sono i giornalisti?

Quella messa in atto dei giornalisti ha oggettivamente un minor tasso di criticità, ma non sempre con la giusta elaborazione narrativa.
I giornalisti più di altri devono fare informazione perché hanno l’obbligo di sottoporre quello che scrivono a delle prove. Sono i garanti dell’attendibilità della narrazione di un fatto diventato informazione.
Si può fare una graduatoria di efficacia dei media: al primo posto c’è la radio. La mancanza di immagini finisce per essere stranamente un vantaggio: evita la spettacolarizzazione dell’informazione. La radio ha tempi più lunghi, è meno incalzante della televisione e del digitale, riesce a stare vicino ai pubblici. Ad esempio, è uno dei media che ha saputo trattare meglio nel tempo il tema dell’immigrazione, dando spazio agli aspetti che necessitano di un approfondimento, senza limitarsi a una narrazione riduttiva e sbrigativa che li “racconta” come un incubo.
Al secondo posto c’è il giornalismo di qualità e d’opinione. Nel caso dei migranti, il caso più spettacolare è quello di Avvenire, che non solo affronta il tema in modo adeguato ma anche con coraggio. Un giornale non deve subire le mode del momento, ma essere un passo avanti rispetto ai cambiamenti, perché solo così aiuta i pubblici a viverlo in modo positivo.

A Ca’ Foscari lei parlerà proprio di Mass media, immigrazione e produzione della paura. Come è affrontata l’immigrazione dai nostri organi di stampa? Qual è l’impatto sull’opinione pubblica?

È difficile negare che viviamo male il fenomeno immigrazioni. Non perché siamo insensibili come una parte dell’informazione vuole farci apparire, ma perché qualcuno ci ha messo in testa numeri sbagliati sui migranti. I media sono responsabili di una distorsione. Non solo costruiscono una fake news di lungo periodo, ma hanno una seconda responsabilità: quella di impaurire le persone più deboli e più povere di cultura e di trasformarle in militanti contro i migranti. La politica opportunisticamente segue queste correnti.

Ci avviciniamo alle elezioni europee, le campagne elettorali oggi si fanno anche sui social network. Non dovrebbe essere prevista una regolamentazione specifica per i social? Quali problemi ha ravvisato?

Quel dovrebbe è il concetto intorno a cui ci stiamo arrovellando. C’è un’opinione predominante nell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, ovvero che non si abbiano strumenti d’intervento sul mondo digitale. Con le leggi che abbiamo oggi, l’Autorità non può regolare un fenomeno così prorompente della comunicazione. Tuttavia nel 2017 ha fatto l’importante operazione di creare un tavolo con i grandi players della comunicazione digitale: Facebook, Google e Twitter. Questo tavolo è stato il primo episodio in Italia di autoregolazione, o meglio, vista la presenza dell’Autorità, di co-regolazione. Abbiamo comunque però la possibilità di fare della moral suasion e di spingere i grandi players ad autoregolarsi – fin quando non si giunga ad una regolamentazione più ampia e definitiva. Ad esempio abbiamo avuto notizia che Facebook sembra darsi delle regole. Il messaggio sta lentamente, ma non faticosamente, passando.

Tra le notizie recenti, c’è il licenziamento del direttore di Repubblica Mario Calabresi, Tra i numerosi commenti spicca il tweet di Vittorio Feltri, che si chiude con “Ora Calabresi è orfano due volte”. In questi casi la libertà di espressione deve essere garantita?

È una delle frasi più imbarazzanti e disumane che ho sentito negli ultimi anni. Non sembra possibile che un uomo colto e professionalmente capace possa fare una battuta nei riguardi di una persona che ha subito un dramma come quello del terrorismo e che sta vivendo una difficoltà forte a causa della fine del suo rapporto con la Repubblica. È la prova che in Italia la gente non è più in grado di gestire la prima reazione. È come se ci si esprimesse sui social media pensando di essere ad un bar, dove può anche apparire normale, ma certo in un giornale è imbarazzante. La libertà di espressione, lo dice la parola stessa, riguarda l’espressione. Quella citata è piuttosto libertà di grido. È mettere in difficoltà l’altro. È una presa di posizione emotiva e come tale va in qualche misura, se non censurata, almeno ridimensionata.

Quanto e in che forma secondo lei i mondi dell’informazione e dell’Università dovrebbero dialogare?

Come abbiamo inventato alla Sapienza di Roma. Bisogna portare il giornalismo dentro le aule. Ai giornalisti fa bene incontrare gli studenti e i ricercatori universitari, e viceversa. La presenza e l’interazione con i giornalisti rende più credibili anche le critiche dell’Università al giornalismo e le rende meno pregiudiziali, meno accademiche. Ai giornalisti fa un bene straordinario. Maurizio Costanzo ha fatto lezioni fino a quando ha potuto e non rinunciava perché riteneva che fosse un investimento fondamentale per la sua selezione dei temi. Era come se usasse gli studenti come testimonial di generazione.
Molti professori a contratto sanno che c’è una contropartita simbolica di simulazione culturale che il giornalismo già trae dalla propria professione, ma che, attraverso il dialogo con gli Atenei, diventa più plurale, più corretta, più vivace: è quasi come se l’Università avesse una scintilla in più.
Non escludo che l’attuale governance prenda in considerazione un progetto per valorizzare meglio la figura del professore a contratto.

Recentemente lei ha richiamato i telegiornali ad un maggiore pluralismo. In particolare quali tendenze erano state rilevate? Ci sono stati dei cambiamenti dopo il monito?

Una prima tendenza generale rilevata è che complessivamente l’informazione non sembra subire la pressione politica della nuova governance. È una notizia importante perché di solito i giornalisti si adattano al clima d’opinione. Questa volta mi sembra che nel complesso i giornali abbiano retto, equilibrando il riconoscimento della novità e l’analisi specifica dei provvedimenti e dei comportamenti.
Detto questo, c’è un problema inquietante in particolare nelle reti televisive del servizio pubblico. Dovremmo immaginarle come esenti da eccessi di pressione della politica, soprattutto di quella che governa, ma non è così: penso l’eccesso di tribuna politica che i due vicepresidenti del consiglio fanno utilizzando i principali telegiornali.
L’equilibrio dei poteri dovrebbe ricordare che esiste una distinzione reale fra l’esecutivo e il deliberativo. Il deliberativo è la formazione della volontà politica. L’esecutivo è quello che deve mettere in campo i provvedimenti e difendere l’interesse nazionale. Cercando di non essere troppo di parte, il governo deve essere almeno in buona misura una risorsa di terzietà, indipendente. Questo non sta avvenendo: troppo spesso gli interventi dell’esecutivo sono una confusione tra libera discussione politica e comunicazione istituzionale. Se questo non viene corretto, significa che sta cambiando la forma istituzionale del Paese e noi non possiamo accettare che cambi in questo modo. Se deve cambiare, ci deve essere infatti una nuova scrittura normativa. Non si possono fare riforme sulla base dei comportamenti dei singoli.

A cura di Federica Scotellaro e Valeria Vavalà