La gravissima situazione umanitaria a Gaza ha aperto un dibattito sul ruolo degli interventi umanitari durante i conflitti e sulla paralisi della diplomazia umanitaria nella protezione dei civili. Ad aprile, sette operatori umanitari che lavoravano per World Central Kitchen sono stati uccisi mentre provvedevano alla distribuzione degli aiuti e non rappresentano un caso isolato. Circa 200 operatori umanitari, inclusi 180 dipendenti delle Nazioni Unite, sono stati uccisi a Gaza e in Cisgiordania a partire dallo scorso ottobre. Le continue interferenze nella distribuzione degli aiuti a Gaza, dettate da dinamiche politiche, hanno portato la popolazione civile allo stremo.
La risposta degli attori regionali, inclusi gli stati del Golfo, è stata subito critica nei confronti del conflitto ma il loro spazio di manovra resta limitato dall’appoggio statunitense a Israele. Il loro impegno, comunque, si è manifestato in una coesa pressione diplomatica e nell’aumento delle risorse per l’ingresso dell’aiuto umanitario a Gaza.
Ne abbiamo parlato con Altea Pericoli, Postdoctoral Research Fellow presso il Center for Middle Eastern Studies, Lund University in Svezia e a da settembre 2025 Marie-Curie Global Fellow presso l’Università Ca' Foscari e l’Università di Princeton con il progetto ISLAMICAID - Aid from Islamic Donors in conflict zones, che ha l'obiettivo di fornire una più ampia comprensione degli aiuti umanitari attuati da attori islamici e Stati del Golfo nelle zone di conflitto. Con la supervisione del professor Matteo Legrenzi.
Quale era la situazione degli aiuti a Gaza prima del 7 ottobre?
L’eccezionalità di Gaza rispetto agli aiuti umanitari è basata su tre fattori.
Il primo è geografico: a partire dal 2007, con la presa di potere di Hamas, i confini della Striscia sono sotto il controllo totale di Israele. Gli unici tre valichi che permettono l’ingresso e l’uscita di beni e/o persone sono due a sud (Rafah e Karem Shalom) e uno a nord della Striscia, Erez, quest’ultimo esclusivamente per il passaggio di persone.
Poi c’è la questione politica: Hamas come autorità de facto che governa Gaza è stato sin da subito boicottato da attori come Stati Uniti e Unione Europea e di conseguenza le Nazioni Unite hanno coordinato gli aiuti secondo una politica di “non contatto” con il gruppo e le organizzazioni ad esso legate.
Un terzo fattore riguarda il tipo di interventi che vengono implementati nella Striscia, caratterizzati principalmente da un aiuto umanitario prolungato. Questo ha, da un lato, rappresentato uno strumento essenziale per il sostentamento della popolazione ma dall’altro ha impedito che un reale sviluppo delle condizioni economiche e sociali, per cui è però necessaria una soluzione politica. L’81.5% della popolazione vive infatti al di sotto della soglia di povertà, l’80% è dipendente dagli aiuti umanitari e si registra un tasso di disoccupazione del 47%.
L’aiuto umanitario è uno strumento importantissimo, che offre assistenza in situazioni di emergenza alla popolazione civile colpita da disastri naturali o provocati dall'uomo, senza distinzioni. Dovrebbe essere però una risposta di breve o medio periodo, e dovrebbe essere accompagnato da un disegno politico in grado di rispondere alle mancanze strutturali e di integrare obiettivi di sviluppo di lungo termine.
L’economista Sahar Taghdisi-Rad nel suo libro "The Political Economy of Aid in Palestine" critica apertamente la deriva ‘assistenzialista’ degli aiuti umanitari a Gaza, che non ha mai portato a un vero miglioramento delle condizioni economiche della popolazione: "Quando l'aiuto viene fornito nel contesto di conflitto e violenza, diventa parte di quel conflitto e di quella violenza, diventa parte di quel contesto; quindi il suo effetto sul conflitto non rimane neutrale, nonostante ciò che la maggior parte dei donatori vorrebbe sostenere". Taghdisi-Rad quindi ci ricorda come l’aiuto umanitario interagisca sempre con le dinamiche politiche. A Gaza, per esempio, l’aiuto ha seguito le logiche e le politiche dei donatori in modo disconnesso dal contesto e da tutte quelle mancanze strutturali dovute all’occupazione, da un lato, e ad una incapacità politica interna, dall’altro. Ma la responsabilità non va cercata negli interventi umanitari implementati fino ad ora.
Cosa è successo dopo il 7 ottobre?
A fronte di questo quadro che riguarda la situazione degli aiuti prima del 7 ottobre, le circostanze attuali e la distribuzione degli aiuti umanitari durante il conflitto necessitano di altre considerazioni. L’ingresso degli aiuti, a partire dall’inizio delle ostilità, è stato legato alle negoziazioni tra Hamas e Israele sul rilascio degli ostaggi e sul cessate il fuoco. L’ingresso di beni di prima necessità è stato così strumentalizzato per ragioni politiche, in violazione del diritto internazionale umanitario. Il numero di convogli umanitari tra gennaio e febbraio 2024 è stato in media tra i 100 e i 200 al giorno, mentre prima della crisi il numero medio giornaliero era di 500 al giorno, incluso il carburante. Inoltre questi aiuti entrano dal valico di Rafah e Karem Shalom a sud e difficilmente riescono ad arrivare a nord della Striscia. All’inizio di aprile, per la prima volta, il valico di Erez è stato aperto per permettere l’ingresso degli aiuti a nord di Gaza. Inoltre, le difficoltà e la mancanza di sicurezza nella distribuzione degli aiuti, ha portato alcune organizzazioni tra cui WCK e Anera a sospendere le proprie attività a Gaza.
In quale misura gli attori regionali sono importanti?
Come già detto, dal punto di vista dei donatori, c’è un importante gruppo di attori che, nelle crisi attuali e soprattutto in quelle dell’area MENA, opera negli stessi contesti dei donatori occidentali, inclusa Gaza: gli Stati del Golfo. In questo caso è molto interessante guardare a questi attori dal punto di vista del loro ruolo di mediazione e di supporto agli aiuti nella crisi attuale.
In questo momento il Qatar è in una posizione ‘privilegiata’ per i suoi rapporti con Hamas, considerando anche che parte della leadership del movimento è presente a Doha dal 2012. Il Qatar ha sviluppato un ruolo cruciale nella mediazione e nella diplomazia umanitaria, ed è da sempre uno dei donatori piú importanti a Gaza rispetto ai suoi vicini del Golfo. Nel 2021 ha allocato 310.5 milioni di dollari solo per aiuti a Gaza e in Cisgiordania.