'Urban China', urbanizzazione di frontiera e impatto sociale

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L’urbanizzazione galoppante della Cina, che è uno dei suoi principali fattori di crescita economica, è destinata ad aver un impatto mondiale in termini di sostenibilità economica, sociale e ambientale. Non è un caso che il coronavirus SARS-CoV-2 abbia iniziato la sua corsa a Wuhan, una delle città più popolose e inquinate dell’ex Regno di Mezzo. Le proiezioni stimano che entro il 2050 i due terzi della popolazione cinese, circa un miliardo di individui, vivrà in aree urbane. La nuova popolazione urbana rappresenterà l’emergente classe media cinese, spingerà l’import di beni e materie prime e sarà protagonista di un importante flusso migratorio verso l’estero.

L’antropologa Antonella Diana ha da poco concluso l’esperienza di Marie Sklodowska Curie Fellow presso il Dipartimento di Studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea all’Università Ca’ Foscari (responsabile scientifico: prof.ssa Laura De Giorgi). Il suo progetto URBAN_CHINA. Urbanization in China’s Southwestern Borderlands. The Case of Jinghong, Xishuangbanna ha studiato l’urbanizzazione come dispositivo di governo dei gruppi etnici minoritari nella periferia sud-occidentale dello Yunnan a partire dal periodo post-socialista. Diana ha adottato un approccio innovativo, integrando la prospettiva spaziale tipica degli ‘urban studies’ con un’indagine etnografica della città come luogo di vita sociale.

Si è concentrata in particolare sull’emergente città multi-etnica di Jinghong, nell’area di confine tra Cina, Laos e Myanmar. Sotto la lente della ricercatrice le comunità di etnia Tai/Dai di cinque villaggi agricoli che sono stati gradualmente incorporati nella città di Jinghong a partire dagli anni ’90: Jinglan, De, Tin, Long Khwan e Long Feng.

La ricerca è incentrata sugli ultimi vent’anni del periodo post-Maoista, quando l’urbanizzazione è stata uno dei principali motori del cambiamento sociale e della politica orientata verso l’economia di mercato. Nella frontiera sud-occidentale, però, di cui è parte la provincia dello Yunnan, ha assunto caratteristiche distintive. Lontana da logiche di sviluppo industriale, qui l’urbanizzazione ha prodotto un’espansione politico-economica dal centro alla periferia, ben rappresentata nella città di Jinghong. 

Sotto il regime comunista, Jinghong è stata trasformata da tranquilla cittadina rurale in una città di confine in forte espansione. A partire dagli anni ’80, sfruttando il clima e l’ambiente naturale tropicale della zona insieme alle culture etniche locali, è stata tramutata in un paradiso esotico per i turisti cinesi. Simultaneamente, la cittadina è stata trasformata in un hub del commercio transfrontaliero tra Cina, Laos, Birmania e Tailandia. 

Negli ultimi 10 anni la crescita di Jinghong ha sperimentato un vero boom edilizio e nel 2018 i prezzi degli immobili di nuova costruzione nella città erano i più alti dell’intera provincia dello Yunnan.

I più coinvolti dal nuovo corso di crescita urbana della città sono stati i residenti di etnia Tai, una delle 13 etnie minoritarie presenti nella zona/Prefettura Autonoma Dai di Xishuangbanna. Di tradizione agricoltori, i Tai sono stati oggetto di un processo di espropriazione terriera statale e di una pianificazione urbana che ha puntato su ordine ed estetica piuttosto che sul benessere e l’inclusione degli abitanti.

Come osserva Diana, tuttavia, l’urbanizzazione di questa zona di frontiera è un processo dialettico tra creazione dello spazio di matrice capital-socialista e produzione del luogo di stampo etnico. Attraverso la dialettica spazio-luogo, lo stato centrale cinese conferma con forza la propria legittimità nel nome della modernità, perseguendo l'integrazione delle aree periferiche abitate dalle minoranze etniche nel nucleo economico nazionale. Nel contempo, in una subdialettica di contestazione e di consenso per i modelli e le pratiche spaziali statali, gli attori etnici Tai cercano di affermarsi come cittadini urbani nella Cina moderna, senza tuttavia perdere la propria identità etnica di periferia.

In ottemperanza alla direttiva statale per cui l’urbanizzazione di confine dovrebbe rispecchiare le caratteristiche etniche (minzu tese), per ingraziarsi i membri delle minoranze e dare una parvenza di sensibilità etnico-culturale, nel progettare i nuovi edifici si è attinto alle decorazioni e allo stile architettonico Tai. In alcuni casi tale appropriazione è stata fatta in modo dissacrante: forme architettoniche e ornamenti sacri dei templi Buddhisti sono stati utilizzati per disegnare ambienti destinati a essere adibiti a ristoranti, guesthouses o bar. 

I proprietari e gli affittuari degli edifici nei nuovi quartieri residenziali della città sono per lo più esponenti dell’emergente classe media Han, provenienti dalle regioni del nord e della costa orientale della Cina. A parte limitate eccezioni, la maggior parte dei Tai non risiede nei nuovi quartieri sorti sulle proprie terre agricole.

Nonostante tutto questo, e nonostante i vantaggi economici di governo locale e developers siano stati considerevolmente maggiori rispetto a quelli degli ex usufruttuari terrieri di etnia minoritaria, i Tai hanno accolto il nuovo sviluppo con consenso e partecipazione, sposando l’ideologia statale della modernizzazione ma negoziando attivamente con lo Stato per ottenere indennizzi e benefici a fronte di un’espropriazione delle terre che ritengono poco trasparente.

Inoltre, l'attuazione di progetti di riqualificazione spaziale promossi dallo stato nelle aree etniche non avrebbe potuto pienamente realizzarsi senza il coinvolgimento di attori Tai, inclusi i quadri dei villaggi, che hanno mediato tra la comunità, gli imprenditori edili e lo stato, come brokers. Inoltre, vi sono alcuni giovani Tai che hanno collaborato con l'apparato di creazione spaziale su un altro livello. 

Con l’integrazione nella città dei villaggi Tai, i loro abitanti hanno progressivamente abbandonato l’economia agricola. Sulla terra dove già sorgevano le proprie case, l’80% dei residenti urbani di etnia Tai ha costruito palazzine a più piani, con scarso o nessun rispetto per le regole di pianificazione urbana del governo municipale, da affittare a migranti Han o a membri di altri gruppi etnici. I villaggi Tai hanno quindi assunto la funzione di quartieri-dormitorio e di aree di commercio al dettaglio e di piccole attività economiche di vario genere, per lo più gestite dagli Han.

La partecipazione attiva dei Tai alla creazione del luogo urbano si è manifestata nella capitalizzazione della terra collettiva esclusa dall’espropriazione per creare un sistema di welfare di villaggio. Essi hanno affittato la terra comunitaria a imprenditori agricoli Han con contratti aventi validità di trenta-quaranta anni.

Con le varie strategie di locazione fondiaria e immobiliare sono migliorate le condizioni di vita per le nuove generazioni di Tai urbani, ma si sono accresciute anche le differenze economiche e sociali. Inoltre la noia, il consumo di alcol e il gioco d'azzardo sono diventati dilaganti tra i rentiers e i loro figli disoccupati. 

I residenti hanno continuato a riferirsi alle loro comunità come “villaggi Tai” (baan tai), mantenendo un forte senso identitario etnico in relazione al luogo. Il rituale è il dominio in cui il senso di appartenenza al luogo ha ricevuto la consacrazione suprema. Questo è avvenuto in cerimonie di due tipi: “nutrire lo spirito del villaggio” (liaen dun baan) e l’inaugurazione della nuova casa (kheun heun mai).

In sintesi, l’urbanizzazione di frontiera nella tarda era post-Maoista non è un processo unidirezionale, dall’altro verso il basso, operato dallo stato verso i residenti di etnia minoritaria. E’ una complessa e contesa dinamica di trasformazione socio-spaziale in cui i gruppi etnici minoritari hanno un ruolo da coprotagonisti con gli attori statali nel teatro della modernizzazione della periferia della Cina.  

Federica Scotellaro