Come si passa dai banchi di Ca’ Foscari a diventare una figura pubblica in un Paese dall’altra parte del mondo?
Ce lo racconta Alberto Mondi, alumnus cafoscarino laureato in Lingue, culture e società dell'Asia e dell'Africa mediterranea, il cui percorso unico lo ha portato a diventare una delle personalità più conosciute in Corea del Sud.
Laureatosi nel 2007 con una specializzazione in cinese come prima lingua, grazie a Ca' Foscari ha trascorso periodi di studio in Cina, presso la Dalian University of Foreign Languages, consolidando le sue competenze linguistiche e culturali. Dopo una serie di esperienze internazionali che lo hanno portato a viaggiare attraverso Europa e Asia, Alberto si è stabilito in Corea del Sud, dove ha costruito la sua vita professionale e familiare.
Dapprima impegnato in ambito accademico, come insegnante di italiano e ricercatore presso il Korea Institute of Public Finance, e poi aziendale, con ruoli di rilievo in multinazionali come SAB Miller e FIAT-Chrysler, Alberto ha inaspettatamente trovato la sua strada nel mondo della televisione sudcoreana dove, grazie alla sua esperienza multiculturale, alla padronanza delle lingue e alla capacità di mediare tra la cultura italiana e quella coreana, è diventato un personaggio particolarmente apprezzato dal pubblico.
Come è avvenuta la tua transizione dal lavoro in azienda alla televisione?
Ho cominciato a lavorare in televisione assolutamente per caso. Quando ho iniziato, nel 2014, non avevo ancora la televisione in casa, e quindi non conoscevo né programmi televisivi né celebrità coreane.
Mentre lavoravo in FIAT sono stato contattato da un mio ex cliente, proprietario di un locale, che mi chiedeva di passare per un caffè perché c’era una persona che voleva conoscermi. Tale persona si rivelò essere uno sceneggiatore televisivo, alla ricerca di stranieri che parlassero molto bene il coreano per un nuovo programma televisivo.
Venni scelto assieme ad altri 10 su un totale di circa 500 intervistati, e così una domenica di luglio mi ritrovai a registrare la prima puntata di un programma traducibile in inglese come “Non-Summit”, una parodia delle Nazioni Unite in cui undici stranieri discutevano e dibattevano riguardo a svariati temi, con il supporto di celebrità e ospiti coreani.
Quel programma che avevo cominciato per caso è diventato il terzo programma più visto della storia della TV coreana, ed è durato per ben quattro anni, è tutt’ora sulle maggiori piattaforme OTT in Corea, ed ha cambiato completamente la mia vita lavorativa.
Incontrai il favore del pubblico perché stravolgevo un po’ il pregiudizio che avevano sugli uomini italiani: ero l’unico degli undici ragazzi già sposato, con un lavoro serio in una grande azienda, una laurea in cinese ed un master in macroeconomia. Per più di un anno ho lavorato praticamente senza giorni di riposo, dividendomi tra ufficio e televisione. Ho mantenuto inizialmente il lavoro in FIAT, perché non potevo assolutamente prevedere la durata del successo televisivo. Dopo tre anni di costanti impegni in televisione, ho deciso di rischiare con una carriera tanto interessante quanto precaria quale quella di personaggio pubblico. Adesso, dopo dieci anni di televisione in Corea, penso sia stata la scelta giusta.
Come descriveresti il panorama televisivo in Corea del Sud?
La Corea del Sud è tra le dieci nazioni che producono più programmi televisivi al mondo, ed è tra i primi tre Paesi se si rapporta il fatturato delle produzioni alla popolazione. Posso dire che in Corea ci sia moltissima più varietà che in Italia.
I generi che funzionano di più sono sicuramente i talk show, programmi musicali di vario genere (survival, audizioni, gare canore…), programmi di viaggio e soprattutto ciò che viene definito come “info-tainment”, cioè programmi che oltre ad intrattenere e far divertire lo spettatore hanno anche un carattere educativo. Ad esempio, ci sono programmi che consistono in lezioni di livello universitario condotte da professori ed esperti di vario tipo, che vengono rese più divertenti e leggere dal fatto che gli studenti che ascoltano siano comici e celebrità. Invece, non esistono praticamente i talk show politici ed è rarissimo vedere un dibattito televisivo che si surriscaldi o sfoci in dei litigi.
Molti dei programmi TV prodotti dalla Corea vengono poi mandati in onda anche sulle maggiori piattaforme di streaming, oltre ad essere spesso venduti in altre nazioni. Ad esempio, il format del mio debutto televisivo, il Non-Summit, era stato venduto in moltissime nazioni asiatiche ma anche europee. Un altro programma musicale in cui sono stato ospite un paio di volte, “Hidden Singer”, è stato comprato tra le altre nazioni anche dall’Italia.
Inoltre, l’età media degli sceneggiatori, degli autori televisivi e dei registi è solitamente molto bassa, intorno ai 28~30 anni. Questo sicuramente fa si che la televisione coreana abbia un carattere più giovanile e sperimenti molto di più di quella italiana.
Dopo più di 15 anni in Corea, quali sono le cose che ami di più del Paese?
Le cose che amo di più del Paese sono fondamentalmente due.
La prima è il grandissimo rispetto di tutti i coreani per le cose altrui e per la cosa pubblica. La Corea è un Paese sicurissimo: praticamente non esistono furti o taccheggi, ogni macchina ha il numero di telefono del proprietario indicato sul lunotto anteriore, non c'è nessun bisogno di porte blindate o di sistemi di allarme. È un Paese in cui sono sicuro che mia figlia, quando sarà più grande, potrà uscire la sera fino a tardi senza preoccupazioni.
La seconda cosa che ammiro di più della Corea è l’amore per la cultura e l’istruzione, ed il fatto che il governo coreano investa moltissimo in essa.
La Corea negli anni Cinquanta era uno dei Paesi più poveri, sia in Asia che nel mondo. Non avendo particolari risorse naturali o turistiche, ha investito tutto nell’unica cosa che aveva a disposizione: il capitale umano. Questo le ha permesso di svilupparsi a velocità da record, ed arrivare ad essere uno dei Paesi più istruiti al mondo.
Amo questo aspetto della Corea perché ovviamente una società istruita e che investe in sviluppo e ricerca, è anche una società educata, sempre all’avanguardia in ogni campo, e sempre desiderosa di migliorarsi e migliorare la vita dei suoi cittadini.
Quali sono invece gli aspetti della cultura coreana hai trovato più difficili da assimilare come italiano?
In generale i coreani sono persone molto educate, rispettose ed istruite. Inoltre, volendo un po’ generalizzare, si può dire che condividono con noi alcune particolarità culturali: danno molta importanza alla famiglia, amano l’aggregazione, dedicano molto tempo ad uscire per mangiare con gli amici, bere, andare a ballare o al 'norebang' (il Karaoke coreano). E c’è di conseguenza una grande passione diffusa per il cibo e per il mangiar bene.
Grazie all’educazione delle persone ed ai tanti punti in comune con la cultura italiana posso dire che non ho avuto particolari problemi di adattamento.
L’unico fattore culturale che è stato difficile superare è stato il fatto che la società coreana sia collettivistica ed intrinsecamente gerarchica. La libertà dell’individuo o le sue scelte sono spesso subordinate alle scelte del collettivo a cui si appartiene, sia esso la famiglia o l’azienda in cui si lavora. Quindi spesso prima di dire ciò che si pensa o ciò che si vuole fare, bisogna pensare a ciò che pensa o ciò che vorrebbe la maggioranza, e quindi spesso la propria libertà va repressa per il “bene comune”.
Questo dover sempre pensare prima al collettivo prima che all’individuo ha sicuramente molti aspetti positivi, ma è stato per me anche molto stressante in quanto l’italiano è invece culturalmente abituato ad ammettere e comprendere scelte o comportamenti individualistici.
La società coreana, come dicevo, è poi fortemente caratterizzata da rapporti gerarchici sia per motivi culturali che linguistici. Si può utilizzare la lingua informale solamente con una persona con cui sia in grande confidenza, che abbia la mia stessa età o che sia più giovane di me. Con chiunque sia di maggiore età, o abbia una posizione sociale maggiore a quella del parlante, va utilizzata la lingua onorifica, da calibrare in base all’anzianità o a quanto in alto nella scala sociale sia l’interlocutore.
Quindi ogni coreano prima di parlare con qualcuno deve mentalmente paragonarsi a chi ha davanti, e poi decidere che livello linguistico utilizzare. La parola “amico” in coreano non esiste: si traduce come “chingu”, che però in realtà significa “persona che ha la mia stessa età”.
Per un italiano questo è un fattore culturale molto stressante e difficile da assimilare, e per me ancora adesso rimane forse l’unica piccola difficoltà nella vita coreana.