Stefania Bernini, storica contemporanea, studia la società e i fenomeni politici e culturali su vasta scala attraverso la lente analitica della ‘famiglia’. Laureata a Firenze in Storia Contemporanea con Paul Ginsborg, concentra la sua ricerca sull’Europa del dopoguerra, anche analizzando come l’allontanamento dei minori dalle famiglie di origine abbia un impatto nel contesto economico e socioculturale globale, sia nei paesi di arrivo che di partenza. Deportazioni forzate, welfare e rapporto famiglia-stato sono elementi che sembrano estremamente interconnessi.
Giunta a Ca’ Foscari nel 2017 come co-coordinatrice della laurea magistrale Crossing the Mediterranean: towards investment and integration, estende il suo ambito di studi alla società contemporanea, in particolare alle famiglie divise dalle recenti migrazioni.
«Nel dibattito pubblico attuale mi sorprende quanto poco si parli di famiglia, anche nell’affrontare il tema dei minori non accompagnati - afferma.- Eppure il rapporto fra migrazione e famiglia è stretto ed importante; la migrazione ha un impatto enorme sulle famiglie di origine, oltre che sulla vita del minore stesso; ma anche la famiglia (intesa in tutte le molteplici forme che questa idea prende in diversi contesti culturali) ha un impatto enorme sulle pratiche migratorie. E il rapporto fra famiglia e migrazione è naturalmente fondamentale nei Paesi di arrivo, dove, in particolare nei confronti dei minori, dovrebbero attivarsi una serie di misure di welfare e protezione capaci di integrare o sostituire la protezione altrimenti offerta dalle reti familiari».
Nel secondo dopoguerra l’Europa si ritrovò milioni di bambini e ragazzi separati dalle loro famiglie, soprattutto provenienti dall’Europa centro-orientale e questo divenne un grande tema di dibattito, politico e culturale. Ad oggi in Italia la stima è di poco più di 11.000 minori stranieri non accompagnati. In entrambi i casi l’Italia ha avuto un ruolo di transito.
A quali progetti sta lavorando in questo momento?
Sto lavorando a due progetti. Il primo riguarda il rapporto fra famiglia, sessualità e nazione e il modo in cui questo rapporto, storicamente molto denso e complesso, viene rielaborato nei nuovi populismi, anche rispetto al fenomeno migratorio.Il secondo progetto riguarda la figura dei minori non accompagnati nel Mediterraneo, dalla seconda guerra mondiale ad oggi. Chi sono i minori non accompagnati? Come sono stati visti, definiti e trattati nel tempo? E soprattutto come si sono raccontati? Come hanno essi stessi definito la propria esperienza? C’è ancora una tendenza molto forte a parlare per conto dei minori, trattandoli come se non avessero una voce propria. I bambini e i giovani rifugiati o migranti sono spesso raccontati semplicemente attraverso l’etichetta della vulnerabilità. Sono le vittime per eccellenza. La fotografia del piccolo Alan Kurdi, che per un momento ha catturato l’attenzione internazionale nel 2015 raccontava quella terribile vulnerabilità. Molte altre storie, tuttavia, ci raccontano di bambini che non solo sopravvivono ma aiutano altri a sopravvivere, a partire dalle loro famiglie. Anche gli storici per molto tempo hanno trattato la storia dell’infanzia essenzialmente come la storia di come gli adulti guardano ai bambini. Il mio tentativo è quello di partire dal tema dei minori non accompagnati per ripensare come possiamo scrivere la loro storia, a partire dalla loro voce.
Chi è oggi il minore non accompagnato?
Ogni storia è una storia a sé. I dati ci raccontano che sono soprattutto maschi, tra i 16 e i 17 anni, ma i dati non esauriscono la realtà. Molti ragazzini che arrivano in Europa dall’Africa o dalla Siria sono cresciuti come piccoli migranti e rifugiati. In molti casi, sono stati separati da altri parenti anche come effetto delle politiche di controllo della migrazione. Le immagini delle separazione dei bambini dalle madri sul confine fra Stati Uniti e Messico sono apparse sconvolgenti. Ma separazioni meno evidenti accadono ogni giorno in Europa e in Italia. Vale forse la pena ricordare che quando si dice 'accogliamo soltanto donne e bambini’, si preparano separazioni che sarà spesso molto difficile correggere in seguito. Raramente i minori stranieri che arrivano in Europa dai paesi più lontani sono partiti da soli; piuttosto, si sono ritrovati soli durante il lunghissimo viaggio migratorio. In molti casi per la famiglia d’origine questo vuol dire attesa, impossibilità di sapere cosa succede, e quando si riesce – non sempre – a ristabilire un contatto, forzata separazione. I meccanismi esistenti di ricongiungimento familiare funzionano molto male.
E’ di recente approvazione il nuovo decreto legge su sicurezza e immigrazione. Come influirà sulla situazione dei minori migranti?
Teoricamente i minori non vengono toccati direttamente dal ‘decreto Salvini’. Di fatto, temo che saranno fortemente colpiti da questo nuovo corso, che ‘bolla’ il migrante come pericoloso per definizione. Per cominciare, l’eliminazione dell’accoglienza umanitaria avrà una ricaduta generale, su giovani e adulti, e non è ancora chiaro quali saranno le conseguenze effettive sui meccanismi di ricongiungimento familiare. Il confronto che si è aperto fra alcuni sindaci e il governo mette ben in evidenza i nuovi rischi di vulnerabilità prodotti dal decreto sicurezza.
Ma c’è anche un altro aspetto che trovo molto preoccupante, ed è lo stereotipo sempre più diffuso ed accettato del giovane uomo migrante come pericoloso predatore. C’è una forte connotazione razzista nell’immagine del migrante come invasore, che avrà forti ricadute anche sui minori. Il passaggio tra la minore e la maggiore età è un momento delicato nella vita di una persona. A 18 anni per i giovani stranieri tutti i meccanismi di protezione riservati ai minori - e garantiti dai trattati internazionali - si interrompono, e viene a cadere qualsiasi continuità nel percorso di integrazione. Il nuovo decreto è tutto basato sulla logica del noi/loro, una logica binaria, che semplifica la realtà e cerca di creare un nemico. Ma anche altre iniziative del Governo assecondano questa logica binaria. Penso ad esempio alla discussione in corso sull’accesso al reddito di cittadinanza. Quando si cerca di rispondere alla scarsità di risorse escludendo i “non-italiani” non si fa altro che utilizzare le politiche di welfare per alimentare la contrapposizione fra “noi” e “loro”, creando inevitabili tensioni e rendendo molto più difficile la gestione di una società complessa.
Cosa cambia nelle società da cui partono e in quelle dove arrivano o transitano?
Si sente spesso dire, anche con evidenti strumentalizzazioni, che dobbiamo ‘aiutarli a casa loro’ e che poiché a partire sono i più giovani e abili la loro partenza indebolisce i paesi di origine. E’ una rappresentazione superficiale, e appunto strumentale. Chiunque guardi al fenomeno migratorio da una prospettiva un po’ più ampia sa che le dinamiche economiche e sociali che questo genera sono molto più ampie e complesse; dai trasferimenti economici delle cosidette “rimesse” (da cui tanto vantaggio hanno tratto in passato i paesi dell’Europa del sud, a partire dall’Italia), al trasferimento di saperi e competenze, allo sviluppo di percorsi imprenditoriali. Non è affatto vero che chi parte toglie semplicemente risorse al proprio paese. Né è vero che chi arriva crea solo problemi per i paesi di destinazione.
Pensiamo all’Italia e torniamo alla famiglia. Abbiamo una delle natalità più basse al mondo e un welfare molto squilibrato, in cui i più anziani garantiscono in molti casi il benessere (e sempre più spesso semplicemente la sopravvivenza) dei più giovani. E’ evidente che una società in cui i nonni diventano il gruppo sociale più numeroso non ha grandi prospettive, e non sorprende che il tema del ‘sostegno alla natalità’ sia diventato un tema ricorrente del discorso politico, ripreso anche dall’attuale ministro della famiglia. Purtroppo, nel clima politico attuale, il tema del sostegno alla famiglia assume tratti nazionalistici e xenofobici, con la ‘natalità italiana’ (e potremmo parlare a lungo di cosa questa immagine implichi o significhi) contrapposta in modo artificiale alla presenza di migranti, giovani e adulti.
Pensiamo ai conflitti che si sono aperti in diverse città italiane intorno al tema del trattamento di bambini così detti ‘stranieri’, ovvero nati da genitori non Italiani, penso ad esempio alla questione delle quote massime di 'bambini stranieri' negli asili di Monfalcone o alla questione mensa a Lodi. E’ importante guardare a questi episodi non come a semplici fatti di cronaca, ma come spie di un modo di concepire la cittadinanza che sempre più enfatizza un’appartenenza culturale e forse persino razziale, in contrasto con una concezione ampia e universalistica dei diritti.
Nelle società moderne, le politiche di welfare hanno un grandissimo potere di inclusione e di esclusione. Un approccio al welfare che riuscisse a guardare alle famiglie nella loro pluralità, dalla pluralità linguistica e culturale a quella di genere, potrebbe realizzare delle politiche molto più capaci di cogliere la complessità delle società contemporanee. Gestire bene l’accoglienza, senza appiattirla sul tema sicurezza, potrebbe portare un’ottima ricaduta sociale. Purtroppo la tendenza attuale va nella direzione opposta, con una pericolosa tendenza a tornare ad una concezione della famiglia e della nazione come entità biologiche, esclusive e chiuse. E così, mentre dovremmo guardare ai nuovi cittadini Italiani come una risorsa, abbiamo grande difficoltà a farlo….
Uno dei temi del dibattito attuale riguarda la distinzione fra rifugiati e 'migranti economici'
Se ascoltiamo il nostro Ministro degli Interni, sembra una distinzione molto facile. In realtà è una questione molto complessa, perché nelle condizioni attuali più e più persone vivono situazioni intermedie, con caratteristiche dell’una e dell’altra condizione. Il mondo contemporaneo è molto diverso da quello del 1951, quando la definizione di rifugiato trovò la sua prima definizione nel diritto internazionale. Alexander Betts ha efficacemente definito come “survival migrants” coloro che pur non fuggendo necessariamente da una guerra o da un conflitto politico, cercano tuttavia rifugio da situazioni che ne mettono a rischio la sopravvivenza. Per esempio per motivi ambientali.
Detto questo, bisogna aggiungere che anche davanti a situazioni ovvie e inequivocabili come la guerra in Siria, si è fatto tragicamente poco, con chiare ed evidenti violazioni del dovere di accoglienza in tutta Europa.
Parliamo di differenze di genere. Esistono pari opportunità di carriera per uomini e donne nella scienza?
Prima di arrivare a Ca’ Foscari, ho lavorato in Gran Bretagna, in Australia, e infine in Polonia. Ho così sperimentato contesti universitari caratterizzati da livelli diversi di supporto per le donne impegnate nella ricerca scientifica. Credo che sia fondamentale promuovere politiche che sostengano le donne nella ricerca. Ma non è sufficiente. Torno per un momento al tema della famiglia. Nei diversi paesi in cui ho lavorato mi ha sempre colpito il modo diverso in cui uomini e donne parlano dell’effetto che avere una famiglia ha avuto sulla loro vita professionale. Gli uomini parlano spesso dell’effetto positivo e stabilizzante della famiglia e dei figli per il loro lavoro di ricerca; per molti di loro la famiglia e la casa sono ancora il luogo dove tornare dopo il lavoro. Per molte donne, invece, la sfida è tenere insieme organizzazione familiare e tempo per la ricerca, responsabilità di cura e vita professionale. Naturalmente è una generalizzazione. Conosco molte coppie in cui le responsabilità familiari sono distribuite in modo equo e solidale. Ma occupandomi di famiglie, è inevitabile riflettere su quanto ancora ci sia da fare anche in questo senso, soprattutto in un paese come l’Italia, dove le politiche di welfare rimangono deboli e sbilanciate.